venerdì 25 aprile 2014

25 Aprile

Racconto liberamente tratto dalle testimonianze di Lorenzo Manattini e Ettore Malpighi


Il vecchio cammina verso di me, tiene le gambe larghe e ogni tanto barcolla un po’
“si rifiuta di portare il bastone, non vuole che i compaesani si accorgano che fa fatica a camminare,sai, ha il suo  orgoglio: era un famoso fungaio e fino a pochi anni fa  percorreva chilometri e chilometri su e giù per i monti ” mi dice sottovoce il figlio scuotendo la testa.
Siamo seduti davanti al bar del paese.
Abbiamo bevuto un caffè aspettando che suo padre uscisse da messa.
“Allora, signora, m’han detto che mi voleva parlare” Mi apostrofa il vecchio non appena mi arriva vicino.
Non mi dice buongiorno,non mi sorride.
Appoggia  entrambe le mani sul  piano del tavolino a e mi guarda da dietro un paio di occhiali dalle lenti sfumate .
Riesco a intravedergli  gli occhi, sono azzurri, e neanche lì c’è l’ombra di un sorriso.
“Volevo un suo ricordo del 25 aprile del 45, quando finì la guerra ma se le do fastidio non importa” rispondo un po’ intimorita
“I fastidi son ben altri. Queste gambe mi danno fastidio, mica lei” Un accenno di sorriso gli appare agli angoli della bocca e subito scompare
Lo invito a sedersi .
Rifiuta. “ E che mi siedo a fare?, c’ho ben poco da dirle. È presto fatto:  io il 25 aprile non lo festeggiai di certo”
Guardo risentita il figlio del vecchio, non capisco perché mi abbia consigliato di parlare con suo padre, che non mi pare altro che un fascista nostalgico , e anche un po’ maleducato, per giunta.
“Perché non lo festeggiò? all’epoca lei era un repubblichino?” Spero che il tono della mia voce esprima bene tutta la mia disapprovazione
“ No. Non ero né un repubblichino né un bel nulla. Nel 45 ero solo un ragazzo di 17 anni.” Parla a scatti. Tronca le frasi di netto, senza strascichi.
 Poi il suo tono si fa più sommesso, come se la voce gli uscisse da lontano
 “O meglio , avrei dovuto essere un ragazzo, se non mi fossi dovuto trasformare in una bestia”
 Cerco il suo sguardo, non lo trovo,ha gli occhi persi su un manifesto pubblicitario, affisso alla vetrina del bar .
“ Il 25 aprile ero a Nordhausen. In quei posti lì, se volevi sopravvivere, neanche un animale potevi essere.
 A diciassette anni io ero una bestia.”
“ Nordhausen? Il campo dove c’era Dora? Le fabbriche scavate sotto la montagne? Ma davvero dormivate nelle gallerie e non vedevate mai il sole?” lo guardo con occhi nuovi, vorrei fargli mille domande
 “Sì signora, proprio quel posto lì.
Ma non dormivo dentro le gallerie , ci avevano chiusi tutti in una fabbrica di tabacco. Dormivamo lì e nelle gallerie ci si andava solo a lavorare.
Comunque il sole non l’ho mai visto lo stesso,  o meglio, lo vedevo all’alba,quando ci facevano marciare fino alla montagna e poi più.
Ci tenevano là sotto, dentro  la montagna ,per dodici ore al giorno, poi si perdevano altre due ore per fare l’appello e quando s’usciva di lì era già buio.
Il sole non lo vedevi mai, sembrava che in Germania esistesse solo l’umido e il gelo. E sì che io ero uno di montagna e al freddo c’ero abituato.
Ma quello era un gelo che non l’avevo mai sentito. Ti facevano scaricare dei vagoncini  da miniera pieni di barre di ferro e era talmente freddo che le mani ti ci rimanevano attaccate, il ghiaccio ti portava via la pelle.
E dovevi continuare a lavorare anche con le mani che ti sanguinavano perché se i kapò s’accorgevano che ti fermavi ti prendevano a bastonate.
Lo sapeva lei signora che i tedeschi andavano a scegliere i Kapò tra i peggio delinquenti?
A Nordhausen l’avevano presi tutti ergastolani, così che non gli facesse specie di massacrarci dalle botte.
Una volta ne ha visto  uno dare una bastonata in piena faccia a un militare italiano, un brav’uomo,era dal campo di prigionia di  Fossoli che s’era rimasti insieme, e m’aveva aiutato tanto. Quel Kapò  gli dette una botta talmente forte che la faccia gli scoppiò, o forse fu per via del freddo che gliel’aveva fatta diventare di vetro, ma a un certo punto quel pover uomo  al posto del viso c’aveva come una rosa di carne e sangue. Cadde in terra e noi si dovette lasciare lì, che se ti fermavi a raccogliere un compagno, anche solo a dargli una mano, facevi la sua stessa fine.
Gliel’ho detto, signora, per sopravvivere in quei posti lì bisogna scordarsi della propria condizione umana. Sopravvivi solo se smetti di pensare come un uomo: non devi avere neanche più un sogno, né un desiderio e nemmeno un ricordo. Soprattutto niente più ricordi, vanno cancellati tutti: devi pensare solo a sopravvivere,a non vacillare sulle gambe, a tirare avanti in ogni modo possibile.
 Bisogna diventare bestie. E il signore Iddio nella sua misericordia m’ha concesso anche questo:  dopo esser stato bestia m’ha fatto ritornare uomo.”
Il vecchio prende dalla tasca della sua giacca un fazzoletto di carta, si asciuga gli occhi. “M’avete voluto far operare per la cateratta e ora guarda lì , gli occhi mi lacrimano sempre” Borbotta  burbero rivolto a suo figlio.
“ Io sono stato fortunato.
Ero abituato a essere povero .
C’ero nato povero e  forse anche per quello ce l’ho fatta a tornare indietro a raccontarlo.
Matteino per esempio, che era un mio coetaneo, un giorno non ce l’ha fatta più  a stare lì a aspettare di morire e ha aperto la porta della fornace giù alla fabbrica e s’è buttato dentro.
Noi abbiamo continuato a lavorare come se non fosse successo nulla ma l’odore della sua carne bruciata  ce l’ho ancora nel naso, non m’è mai riuscito di mandarlo via.
Era lo stesso odore che c’era a Sachsenhausen.
Quando ci portarono in Germania la prima tappa la facemmo lì.
Appena arrivammo  vedemmo carretti su carretti carichi di cadaveri.
Quei morti nudi, rinsecchiti,ammassati l’uno sull’altro, erano così diversi dai nostri morti, che t’accorgevi che erano uomini solo perché ogni tanto una gamba o un braccio scivolavano giù lungo il bordo del carretto.
Io che ero un ragazzo, lì per lì non provai né pietà né paura.
Fu  solo quando lo zio Bati, che mi marciava accanto, mi sussurrò fra i denti ,in dialetto “ mi sa che non siamo mica arrivati in un bel posto” che capii. Allora mi misi a piangere, in silenzio , senza neanche un lamento, perché anche quello ho imparato lì, a non dargli mai la soddisfazione di vederti soffrire.
A Sachsenhausen ci sono rimasto poco.
 E anche quella fu una gran fortuna. Perchè lì c’erano i forni crematori, e si diceva che sopravvivere in quel campo più di tre mesi era un miracolo. Appena arrivammo ci tennero tre giorni in piedi, mattina e sera, chi fu abbastanza forte da restare ritto fu trasferito al campo di lavoro di Guben. Gli altri furono lasciati lì, a morire, ma questo l’ho saputo dopo, a guerra finita.
Anche a Guben ci sono rimasto poco. Una mattina ci svegliammo e sentimmo i cannoni e le mitragliatrici. Voleva dire che i russi erano vicini. Un militare tedesco ci disse di prendere la nostra coperta , poi ci divise in gruppi di 14 uomini e dette a ogni capogruppo un chilo di pane da dividere con gli altri. Dovevamo evacuare il campo.
Rimasi stupito  che non fosse stato il nostro Kapò a darci gli ordini, tra uno spintone e un pugno. 
Un prete, un internato come me, mi spiegò che i tedeschi  prima di ritirarsi  uccidevano sempre tutti  i kapò, per non lasciare in vita possibili testimoni.
Dopo  uccidevano anche i bambini, i vecchi e i malati. Spostarli da un campo all’altro sarebbe stata una fatica inutile, venivano tenuti in vita solo coloro che erano abili al lavoro
 Mi disse che io ero fortunato ad essere un ragazzo forte, perché i tedeschi avevano bisogno di molta mano d’opera. Le condizioni nei campi di lavoro erano talmente pessime che gli internati raramente sopravvivevano per più di sette otto mesi, e quindi nelle fabbriche c’era bisogno di un ricambio continuo.
Per andare dal campo di Guben a Nordhausen facemmo circa 500 chilometri a piedi.
 Ormai era inverno inoltrato, si marciava per 40, 50 chilometri il giorno, sotto la pioggia e la neve. 
Alla colonna di noi deportati s’erano uniti anche molti civili tedeschi, che scappavano dai bombardamenti russi.
Anche quella fu una gran fortuna, perché quando si attraversava i paesi la gente del posto ci aiutava, ci dava qualcosa da mangiare, che con un chilo di pane in14 non si sarebbe di certo andati tanto lontani.
Chi cadeva e non ce la faceva a rialzarsi dovevamo lasciarlo lì, se non volevamo fare la stessa fine.” Il vecchio rimane in silenzio qualche minuto. Si soffia forte il naso, si asciuga di nuovo gli occhi. “accidenti alle cateratte..”
Gli sorrido comprensiva“ E come ha fatto lei a sopportare tutto questo, a diciassette anni, un ragazzino, se penso a mia figlia che ne ha quasi diciannove…a cosa pensava per poter  tirare avanti?”
Mi guarda, arriccia appena le labbra,  forse sta tentando di ricambiare il sorriso
“A cosa pensavo non lo so. Ma so che ho pianto tanto. Solo lacrime,come acqua che esce dagli occhi, in silenzio.
 E ho masticato tante di quelle radici… per non sentire i morsi della fame
Una volta un contadino ci ha fatto dormire nella stalla. C’erano mucchi di letame di cavallo ovunque, e mai letto m’è parso più bello. Ci si sdraiava su tutto quel letame e finalmente si stava al caldo…”
Quando siamo arrivati a Nordhausen lì per lì mi pareva quasi di starci bene. Dopo 15 giorni di marcia e fame  e freddo lì almeno si poteva dormire al chiuso
E poi la mattina ci davano una scodella di caffè nero e un tubetto di margarina, a pranzo un’altra tazza di caffè e a cena la minestra di rape. Nella minestra spesso c’erano le cimici, ma io non ci facevo caso. Gliel’ho detto, ero nato povero. Ci davano anche 250 grammi di pane la settimana, ma tutti s’era presa l’abitudine di mangiarlo subito, per non rischiare che qualcuno ce lo rubasse
Dopo tre mesi di 12 ore di lavoro al giorno, con quel gelo, senza mai vedere un raggio di sole, anch’io, che ero un giovane forte ,m’ero ridotto a essere l’ombra di me stesso.  Non so quanto avrei potuto durare ancora, ma ho avuto fortuna, gliel’ ho già detto, e i primi di aprile abbiamo sentito di nuovo il rumore delle bombe. Stanno per arrivare gli inglesi, si mormorava al campo.
Una mattina il nostro Kapò non è venuto a darci la sveglia. Al suo posto  c’era un ufficiale dell’esse esse . Ha fatto l’appello. Ci ha radunati sul piazzale del campo e ci ha costretti a marciare fino alla montagna, dove c’erano le gallerie in cui si lavorava.
Ho capito che questa volta era finita davvero .
I tedeschi si ritiravano e abbandonavano la fabbrica.  Sapevamo tutti che non ci avrebbero portati con loro. Ormai la Germania aveva perso la guerra, non avevano più bisogno di mano d’opera  , noi non servivamo più a nulla. Eravamo solo un ingombro e non potevano neanche lasciarci andare, perché eravamo dei testimoni pericolosi.
I soldati tedeschi ci obbligarono a entrare nelle gallerie. Un ufficiale ci comunicò che ci avrebbero rinchiusi dentro e ci avrebbero fatti saltare in aria  insieme alla fabbrica.
Ma si vede che non era ancora arrivato il mio momento per morire perché inaspettatamente i cittadini di Nordhausen, impauriti dai bombardamenti, si riversarono dentro le gallerie in cerca di un rifugio .
I Militari tedeschi per non uccidere anche tutti quei civili rinunciarono a farci saltare in aria minando le gallerie.
 Sgombrarono il campo in tutta fretta e fuggirono lasciandoci lì.
Il mattino dopo arrivarono gli americani, era il 15 aprile.
Gli americani ci misero più di una settimana per organizzare la vita al campo per noi che eravamo sopravvissuti.
In quei giorni ho creduto davvero di morire di fame.
Una mattina che non ce la facevo più a stare a digiuno  mi feci coraggio e uscii fuori dal campo, in cerca di cibo.
Il paesaggio intorno era così simile a quello delle nostre montagne: c’erano gli stessi boschi di faggi , di larici,  che quasi non mi pareva potesse essere vero che dalla stessa terra , dalla stessa erba, che c’è anche qui da noi,  fosse nata  così tanta crudeltà.
In fondo a un prato scorsi una cascina di contadini.  Misi da parte la mia paura e mi avvicinai. Sull’aia c’era un vecchio contadino. Mi vide,  mi urlò qualcosa che non capii.
 Gli feci i cenni con le mani, indicandomi la bocca, “ho fame, dammi da mangiare , ti prego”, gli dicevo con le parole e i gesti.
Il vecchio contadino entrò in casa, e io tirai un sospiro di sollievo,finalmente avrei mangiato un pezzo di pane, o una patata. Invece tornò fuori imbracciando un fucile, urlandomi di andare via, o almeno fu quello che io pensai mi stesse dicendo. in quella lingua che non riuscivo a comprendere
 Mi girai e iniziai a correre .
Sentivo gli spari del fucile, le pallottole passarmi vicine.
Tornai al campo e piansi. Il giorno seguente gli americani si insediarono al campo.
Ci radunarono sul piazzale e lessero un proclama. Un soldato italo americano ce lo tradusse “Nell’armeria ci sono ancora delle armi tedesche, potete prenderle. Avrete 5 giorni di tempo per regolare i vostri conti, se avete qualcosa in sospeso, qualcuno  a cui volete farla pagare approfittatene ora. Fra 5 giorni prenderemo ufficialmente possesso del campo, dovrete consegnare le armi, non saranno più concesse vendette a nessuno.
Io andai in armeria. Presi un fucile.  Uscii dal campo, tornai alla cascina.
 Aspettai nascosto di vedere quel vecchio impietoso che mi aveva puntato il fucile addosso.
Che aveva sparato contro  un ragazzo affamato che a diciassette anni non era più nemmeno un ragazzo e s’era dovuto trasformare in bestia. 
Aspettai immobile, per più di un’ora.
Poi il vecchio uscì .
Teneva in mano due secchi, stava andando a dar da mangiare alle bestie.
Presi la mira.
Puntai alla sua testa.
Vidi i suoi capelli bianchi e radi nel mirino del mio fucile
 E all’improvviso non ne ebbi più voglia di sparare, abbandonai il fucile nell’erba, tornai correndo verso il campo.
Mentre correvo ricordai  il viso della mia mamma ed era la prima volta che mi capitava, da quando ero stato imprigionato a Fossoli .
E poi immaginai il fiume sotto Ca’ dei Pesci, e pensai alle trote che a primavera fanno i salti fuori dall’acqua e se sei bravo puoi prenderle con le mani  e correndo per quei prati,  stupendomi che ancora esistessero i fiori , mi accorsi che stavo tornando ad essere un uomo.
Era il 25 aprile. Questa per me, signora, fu la liberazione